Sui social abbiamo trovato, e la proponiamo, una bellissima pagina, siglata G. S., che racconta uno spaccato della storia della nostra città.
In quinta elementare non andavo bene a scuola e siccome ci sarebbe stato da affrontare gli esami di licenza, il babbo fu categorico: doposcuola. La nostra era una famiglia piccolo borghese e quindi solo il doposcuola delle signorine Candido era il più adeguato. Esse erano tenute in grande stima perché possedevano il titolo nobiliare di Barone; una nobiltà di rango che si ostinava a resistere anche nella repubblica ma priva ormai di sostanze. Il loro nonno, don Pasquale, aveva impegnato gran parte del suo patrimonio a finanziare le cerimonie di accoglienza riservate al re Ferdinando II in occasione di una visita nella Provincia di Terra d’Otranto. Poi, con l’avvento dei Savoia, la sua economia non si riprese mai più. Il mio babbo, tra l’altro, vantava con esse una certa parentela, quindi era d’obbligo che andassi lì. Esse avevano dedicato la loro esistenza alla formazione di diverse generazioni di rampolli delle famiglie bene del paese.Erano tre zitelle vestite sempre di nero, Candida, Pia e Uccia, quest’ultima di una ferocia inaudita. S’erano divise tra loro le mansioni e cioè la signorina Candida si occupava della lingua italiana, di storia e geografia, la signorina Uccia si occupava di aritmetica e la signorina Pia, che era una vecchina minuta, al contrario delle altre due che erano donnone grasse, si occupava delle poesie, ma la loro professionalità didattica era tutta riposta nella loro arcigna severità.Le lezioni di recupero avevano sede nella loro casa, un palazzo quattrocentesco un po’ malandato. Nel periodo invernale si stava in un androne, a suo tempo adibito a stalla e deposito di carrozza. Quell’esperienza fu un incubo a causa dell’eccessivo rigore e per le frequenti punizioni corporali che le signorine infliggevano. Le pene consistevano in: semplici ceffoni; leccamarmitte, ovvero scoppole sulla nuca, manolate, ovvero bacchettate sulle mani, stare in ginocchio sui ceci o, nella migliore delle ipotesi, stare ore dietro la lavagna. La più temuta, perché profondamente umiliante, consisteva nell’indossare un cappuccio di cartone con su scritto “somaro” , stare al centro della stanza ed essere esposto al pubblico dileggio. Per fortuna il grado di parentela, seppure lontano, mi teneva al riparo da quelle torture. Al contrario di come potrebbe essere oggigiorno, tutto avveniva in modo pacifico, sostenuto dal beneplacito delle famiglie, in una trascendente conformità che metteva al riparo da traumi psichici. La televisione, per esempio, era uno strumento d’angoscia. A quell’epoca, che s’era in pochi ad avercela (noi e le signorine Candido eravamo tra questi), alcuni erano convinti che fosse uno strumento diabolico e credevano addirittura che fosse una finestra aperta nelle case dei telespettatori, attraverso la quale si poteva essere osservati; tanto che prima dell’inizio degli spettacoli rassettavano bene la casa e si mutavano d’abito per non essere mal giudicati. Non penso che anche le signorine Candido fossero così credulone, ma a noi bambini ci tenevano in questa corbelleria, giacché spesso mi ammonivano dicendo che attraverso la tv m’avevano sorpreso a fare qualche monellata. Per via della parentela con la mia famiglia le signorine non esigevano la retta, ma ricordo che il babbo diceva: “Se non paghi a lino, paghi a lana”, cosicché a Natale, per non sfigurare, portammo un cesto colmo di ben di Dio, oltre ad una damigianetta di primitivo di Manduria ed uno ziretto d’olio extravergine d’oliva. Allora, come per miracolo, le signorine divennero buone e gentili. Godendo di un privilegio raro, mi portarono nelle stanze private. Con la signorina Uccia traversammo camere buie piene di mobili antichi, catafalchi di noce scuro, librerie, tavoli col piano di marmo ricoperti di centrini, tenebrosi quadri di santi, lugubri tendaggi in macramè e ovunque un odore d’antico. Mi disse:- Aspetta qua.Il temporaneo abbandono mi tenne in apprensione perché io associavo quella donna ad una orchessa, anche a motivo del suo nome che mi ricordava: ucci ucci sento odor di cristianucci.La signorina tornò dopo poco con un’incartata di biscotti della salute e bocconotti. Disse:- Questi li mangi a colazione nel latte, – accennando un ghigno che aveva l’intenzione di un sorriso.Non ricordo se dissi grazie, mi sentivo impacciato nel vedere l’incubo in forma umana improvvisamente intenerito.Giunta la primavera, le lezioni si spostavano nel giardino attiguo e lì l’angoscia si allentava.Era, questo giardino, un corridoio verdeggiante, non più largo di due metri e lungo complessivamente una trentina, ad angolo retto, riparato da una pergola d’uva prunesta. La galleria, arricchita da arbusti di rosmarino e di ligustro, finiva in un teatro di verzura, un catino di luce smagliante, lontano dal mondo come un luogo metafisico, profumato per un immenso gelsomino dal candore verginale, simbolo della illibatezza eroica delle signorine e a stridente contrasto con la loro crudele pedagogia.In quel tunnel di paradiso i profumi, il vermiglio dei gerani e i baluginii del sole rendevano il doposcuola tollerabile e riuscivano a dare persino un’anima alle tabelline urlate dalla signorina Uccia.Posavamo quaderni e libri su una mensola di cemento armato che sporgeva lungo uno dei muri imbiancati a calce. Lì, in piedi, svolgevamo i compiti e quel ripiano era come il letto di Procuste: troppo alto per i più bassi e troppo basso per gli spilungoni. Nell’intervallo s’andava a fare la fila ad una fontanella di ghisa a colonna che gettava uno zampillo verso l’alto tappando col dito il rubinetto. Ogni volta finiva in cagnara, per via di quelli che s’attardavano a giocare con l’acqua. I più discoli si guadagnavano bacchettate sulle mani o venivano reclusi nel pollaio dove potevano sgraffignare qualche uovo che con un temperino bucavano e succhiavano di nascosto, avendo cura di nascondere il guscio in tasca e mostrarlo come un trofeo all’uscita. Nel giardino tutto aveva un’aria di giocosità.D’improvviso un giorno arrivò la pioggia, il tunnel fu pervaso da un fremito, da un giustificato fuggi fuggi generale per mettere al riparo libri e quaderni. Fu allora che ardii rubare un bacio volante all’Angelina, la smorfiosetta di quarta con le trecce brune che ai miei occhi sembrava una squaw apache.In quell’atmosfera dolce e odorosa di essenze la signorina Pia si addormentava all’ascolto reiterato dei versi di Pascoli o Carducci, cosicché i più scaltri imparavano solo la prima strofa e la ripetevano diverse volte, fintantoché, stabilito un tempo congruo, scuotevano la signorina che si destava e, mascherando la letargia, diceva sempre: “Va benino. Ma domattina, a mente serena, ripassala.” A mente serena…Al momento del dettato bisognava sparpagliarsi lungo tutto il tunnel per non copiare; io amavo andare nel catino di luce, e laggiù succhiavo il nettare dei gelsomini, incurante delle parole sospese nell’aria dalle sillabe prolungate: deeettaaaaatooooooo. A malapena mi giungeva la voce squillante ma remota dalla signorina Candida; troppo inebriante era il profumo per negare alla mia anima, resa leggera, una sorta di languido trasumanare.Giunse l’estate. Sostenni gli esami e fui promosso, ma ebbi quasi un rimpianto al pensiero che non ci sarei più tornato dalle signorine Candido.
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