Questa la relazione politica del neo segretario Francesco Rogoli (nella foto).
Cari amici, cari compagni, care democratiche e cari democratici, ci ritroviamo a celebrare un congresso a distanza di pochi mesi dall’ultimo che ci ha visti impegnati nel rinnovo degli organismi dirigenti a tutti i livelli del nostro partito. Ritengo che questa occasione seppur del tutto straordinaria vada utilizzata bene, in quanto è inserita in una cornice locale, nazionale ed internazionale non di poco conto e che merita un momento di riflessione seria, che spero possa prendere corpo. Nonostante il breve lasso di tempo che ci separa dallo scorso congresso ci troviamo in una fase completamente nuova, molte cose sono successe: a Mesagne ad opera di un’iniziativa del Sindaco è cambiato il quadro di giunta; la maggioranza che fino a quel momento aveva retto le sorti dell’esecutivo è stata messa in discussione; colui che, in massa, il popolo democratico e cittadini spinti da una grande voglia di cambiamento avevano votato per guidare il PD è approdato a palazzo Chigi, a spese di un Presidente del Consiglio già espressione del Partito Democratico;
il PD è entrato a far parte della grande famiglia dei Socialisti e Democratici europei uscendo da un’anomalia tutta nazionale che rischiava di metterci ai margini della politica Europea.
E’ dunque in questo contesto che ci muoviamo, ed è alla luce di questi fatti nuovi che bisognerà capire come ci prepariamo alla consultazione delle europee, che oggi più che mai rappresentano un crocevia nella storia del vecchio continente e potrebbero riservarci esiti tali da immaginare passi indietro rispetto allo sforzo di integrazione che si è consumato negli ultimi decenni. Ma oggi che cosa è l’Europa? Cosa è diventata ad oltre settanta anni dal manifesto di Ventotene? Io penso che se noi non partiamo da questa domanda, sarà difficile il cammino che pure bisogna compiere a difesa dell’Unione.
L’Europa oggi non è più percepita come una possibilità di riscatto, come una realtà geopolitica che generi diritti, tutele, lavoro, benessere, cultura, pace. Parlare di Unione Europea significa spesso indicare un impedimento alle soluzioni che servirebbero per combattere questa crisi. Ma è tutta colpa del populismo? Che pure c’è e dilaga! Tutta colpa della scarsa conoscenza dei processi storici che hanno portato all’Unione? Anche questa esiste basti pensare che quasi metà dei cittadini Italiani non sanno di essere allo stesso tempo Europei. Io penso che non è solo in questi fenomeni che vada ricercata la distanza tra i cittadini e le istituzioni che governano il nostro Continente. Ritengo che la possibilità di uscire dalla crisi che è allo stesso tempo, finanziaria, del debito sovrano e degli assetti produttivi, noi ce la possiamo giocare solo in Europa, avendo piena consapevolezza che il nostro Paese va anche ripensato in un’ottica internazionale, al di la dei propri confini. Il punto dal quale bisogna partire è però stabilire quale deve essere il ruolo di 450 milioni di cittadini europei nel mondo, per comprendere quali siano le ragioni di quel senso di non appartenenza a qualcosa che va oltre i nostri confini siano essi geografici, economici, culturali. E’ come se questa grande entità che non è uno Stato ma ha una moneta unica non avesse ancora acquisito una coscienza storica di se.
Di comune oltre alla moneta c’è poco, come già detto non siamo uno stato, non abbiamo una politica economica comune, non abbiamo piani industriali comuni, non c’è traccia di una comune politica fiscale, non esiste un esercito europeo, ciò che è peggio manca una politica estera europea. Quest’ultimo aspetto mina alle fondamenta dell’Europa la quale è stata essa stessa conseguenza di due conflitti mondiali. Lo abbiamo ancora una volta dimostrato nella gestione o forse sarebbe opportuno dire nella mancata gestione della crisi Ucraina che è culminata (e mi viene da dire speriamo che sia culminata davvero) nell’annessione della Crimea alla Federazione Russa con un referendum sul quale vigilare è stato impossibile. Ma l’idea che più sconvolge è che si ha come la percezione che davvero non ci sia stata comprensione da parte delle cancellerie europee di quella che era e rimane la vera dimensione dello scontro.
L’obiettivo della Russia non era l’Ucraina, ne tanto meno la Crimea che era già nelle mani della Russia attraverso l’affitto della base di Sebastopoli fino al 2042 in cambio di forniture di gas, bensì la ricostruzione attraverso una Unione Euroasiatica di un dominio russo inserito in un quadro di contesa geostrategica tra Oriente e Occidente. Ma non è mia intenzione addentrarmi in questo argomento, sarebbe da parte mia presuntuoso, la cosa che però a me desta preoccupazione è la seguente: si può pensare che l’immobilismo europeo spesso determinato da divergenze intrinseche, altre volte per ragioni di appartenenza ad un campo possa essere sempre senza conseguenze? Si può davvero pensare che nel XVI secolo alle porte dell’Europa si creino le condizioni per una guerra civile con esiti e conseguenze difficili da contenere? L a ragione che mi porta a questa riflessione è quella di insistere sul fatto che in questi anni l’Unione non si sia dotata di un ruolo o nel caso contrario ha ricoperto il ruolo sbagliato adottando un doppio registro. Mi spiego meglio. Esiste un’Europa che difende i diritti dei gay, degli zingari, e di molte altre minoranze, facendosi paladina di queste battaglie, cosa sacrosanta. Gli atleti tedeschi a Sochi hanno sfilato con le divise arcobaleno, una manifestazione lodevole. Ma l’Europa è la stessa che non riconosce le minoranze russofone nei Paesi Baltici.
Siamo sicuri che sia solo l’Occidente la parte del mondo portatrice diritti, di pace e di uguaglianza? Scomodo queste questioni perché a mio modesto avviso è in questo spazio che l’Europa debba ricercare il suo ruolo nel mondo, cosi impone la storia, il portato di culture del vecchio continente. Insisto su questo ragionamento consapevole del rischio di apparire come uno che parla di cose molto lontane da noi, ma io credo che la crisi che attanaglia l’Europa, l’Italia, la crisi della politica e quindi della sinistra, è dipesa molto dal fatto che i fenomeni hanno assunto sempre più dimensioni globali e gli strumenti della politica sono rimasti strumenti locali. Una lotta tra giganti contro nani che non ha lasciato scampo a nessuno e quindi neanche alla rappresentanza democratica che oggi è messa in forte discussione. Per questo dalla fase in cui ci troviamo si può uscire solo con un Europa più politica, a patto che per politica si intenda la grande politica cioè quella che muove i passi da una ricognizione storica e solo da quella comprende quale è il suo campo storico. Io credo che sia fondamentalmente questa la sfida che si impone alla sinistra europea e consentitemi del mondo.
Zygmunt Baumann in un’intervista al Messaggero più di un anno fa dichiarava: «La ragione di questa crisi, che da almeno cinque anni coinvolge tutte le democrazie e le istituzioni e che non si capisce quando e come finirà, è il divorzio tra la politica e il potere.Sì. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo….. Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia…».
Io credo che il problema che sta davanti a noi è quello ristabilire il principio secondo cui la politica torni protagonista, ed è chiaro che noi dobbiamo guardare al nostro campo, con l’ambizione di ristabilire quali sono i canoni della sinistra davanti al nuovo mondo, dobbiamo contribuire alla riuscita di questo processo all’interno del PSE e nel PD con la consapevolezza che la sfida italiana è quella di capire come fare della sinistra un partito nazionale, cioè un soggetto politico che punti ricostituire un tessuto unitario messo in forte discussione a 150 anni da Porta Pia. Il punto come dicevo pocanzi è definire un nostro campo di intervento: per chi ci battiamo? Contro chi? Per quale idea di società? Io penso che il nostro agire debba in primo luogo dare una risposta a queste domande. Per fare questo non occorre riesumare una guerra ideologica al capitalismo ma sarebbe interessante capire di quale capitalismo parliamo.
Per rispondere a questa domanda occorre capire da dove veniamo, da quale modello sociale. Quello uscito fuori dalla ricostruzione post bellica ma che veniva da ancora prima e si fondava nel fordismo che aveva come punto di riferimento lo stato-nazione dove la domanda e l’offerta di lavoro trovavano un punto di incontro nel contesto nazionale anche perché la produzione era finalizzata al consumo del lavoratore stesso. In questo contesto la produzione di beni prevaleva sul mercato. Questo comportava due conseguenze sostanziali: il lavoratore considerava il lavoro come un momento necessario per compiere fino infondo la identità e ottenere soddisfazioni nella sfera personale, familiare; il lavoratore faceva del lavoro il simbolo della lotta per il riscatto. Queste condizioni agivano a favore delle fasce deboli e si traducevano in altri interessi collettivi, cioè lotta fino al conseguimento del welfare state.
Questo modello ha esaurito la sua funzione qualche decennio fa, l’uomo era al centro del processo produttivo, certo era considerato un consumatore, ma quella società è stata forse l’ultima che ha garantito mobilità sociale, cioè la possibilità per i figli di fasce sociali subalterne di riscattarsi rispetto alle loro condizioni di nascita. Ma cosa è intervenuto oggi? A partire dagli anni settanta sono arrivati sulla scena mondiale nuovi soggetti con il loro carico di bisogni di domande, questo ha richiesto l’avvio di una grande ridistribuzione della ricchezza, e fin qui non c’è nulla di male, ma ciò che è importante stabilire è: a danno di chi sia avvenuta questa ridistribuzione? Il basso costo del lavoro nelle realtà emergenti ha costretto la società del lavoro occidentale a stringere la cinghia. Le società occidentali si caratterizzavano per consumi opulenti e un sistema di welfare state molto costoso.
Tutto ciò è stato messo in discussione con il processo di mondializzazione avvenuto in quegli anni. Il punto è il seguente: c’era solo una strada per uscirne? Io credo che ce ne fossero almeno un paio: una a destra e una a sinistra. Si è scelta la prima che ha comportato lo sconvolgimento dell’ordine mondiale, ha fatto saltare gli equilibri che si erano sanciti a Bretton Woods, il mercato e la finanza da essere mezzi utili allo sviluppo (ed è difficile stabilire il contrario dal momento che hanno reso possibili cose inimmaginabili prima come l’uscita da una condizione di povertà di mezzo mondo) sono diventati strumenti nelle mani di pochi oligarchi che hanno accumulato rendite e ricchezze a discapito della stragrande maggioranza degli individui.
Riporto a questo proposito un’altra citazione di Zygmunt Baumann: “ Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine.Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…”
Il protagonismo della politica va ricostruito attraverso l’adozione di strumenti globali, per rispondere a problemi che sembrano riguardare il nostro orticello ma che afferiscono a questioni che hanno una dimensione mondiale. Questo strumento è l’Europa senza la quale il destino del nostro Paese rischia è spacciato. Con questo non voglio dire che le misure annunciate dal Presidente del Consiglio non indichino una strada giusta quanto meno in un’ ottica avvio di redistribuzione della ricchezza dalla rendita al lavoro, all’impresa, come anche le misure del Ministro del lavoro possono generare processi virtuosi, certo è che il prezzo da pagare potrebbe essere eccessiva flessibilità e quindi nuovo precariato, ma forse è pur sempre meglio del lavoro senza cittadinanza, cioè lavoro nero, senza un minimo di diritti, o comunque meglio della condizione di sfruttamento in cui opera l’esercito delle false partite iva.
Nonostante la bontà di queste misure a me pare chiaro che bisogna rinegoziare alcuni parametri europei, senza questa operazione lo spazio delle soluzioni è troppo stretto. Bisogna avere il coraggio, l’autorevolezza e la credibilità per dire che non è vero che siamo nel tempo dove le ideologie non esistono più, ho provato a dire prima , con tutti i limiti del caso me ne rendo conto quanto ci sia di ideologico nel governo dei processi che riguardano i giorni nostri. E’ il tempo di dichiarare il fallimento di questa fase e di aprirne una nuova. Siamo gli unici che difenderanno l’Europa e l’euro in campagna elettorale, ma dovrà essere altrettanto chiaro che il nostro intendimento è quello di batterci per un’Unione diversa da quella dalla quale siamo stati governati . Ci sono misure che ad oggi sembrerebbe quasi eretico anche solo citare, ma non possiamo presentarci alle masse in difficoltà chiedendo fiducia e consenso e facendo si che nulla cambi.
Non sarebbe scandaloso ad esempio dire che sarebbe utile una mutualizzazione del debito a lungo termine, con misure redistributive tra gli stati membri, e al loro interno tra ricchi e poveri. In secondo luogo aiutare la competitività dei paesi periferici con una mutualizzazione della crescita, cominciando coll’investire risorse pubbliche in un’opera straordinaria per creare nuove occasioni di impiego, agendo da leva per il mobilizzo di risorse private innescando fiducia e ripresa. Sarebbe auspicabile adeguare il costo del lavoro che porterebbe a un relativo equilibrio commerciale e a livelli sostenibili dei deficit di bilancio. Io credo che noi dobbiamo accettare che sia questa la frontiera del confronto, facendo comprendere, con il nostro linguaggio e con le nostre parole, come anche a Mesagne sia importante affermare l’idea di un’Europa diversa. Credo che l’adesione al PSE debba significare questa svolta e non essere uno sterile esercizio di appartenenza sapendo che il nostro campo può solo allargarsi. Per essere chiaro faccio riferimento al fatto che Papa Francesco critica il modo in cui si crea ricchezza nel nostro tempo in maniera molto più radicale di noi.
Credo che un altro strumento da utilizzare per ricucire un rapporto con i cittadini siano le riforme del quadro istituzionale e della legge elettorale. La crisi Italiana è si una crisi economica ma lo è anche di rappresentanza. Le riforme previste da Renzi possono aprire uno spiraglio, soprattutto per quanto riguarda la trasformazione del Senato nella camera delle Autonomie e la riforma del titolo V per rivedere le competenze del mondo delle autonomie locali . Ritengo che sia stato giusto votare alla camera il disegno di legge elettorale, credo però che bisogna rivedere alcune storture e mi permetto di dire vizi di incostituzionalità: le soglie troppo elevate sia per chi concorre da solo, a maggior ragione per chi si coalizza, le liste bloccate, conosco i pericoli del sistema delle preferenze ma credo che l’idea dei collegi uninominali vada presa in seria considerazione, prevedere una norma per la parità di genere. Non si pensi che il problema del femminicidio lo si possa affrontare solo da lato della sensibilizzazione, ma occorre risolvere il problema in nuce, cioè: quale ruolo economico e sociale ha oggi la donna? Non è indifferente stabilire per legge una norma che preveda la parità di genere. Non è un processo che avverrà spontaneamente.
In ogni caso io penso che la questione della credibilità la dobbiamo affrontare anche da un altro punto di vista e a questo serve un partito. Bisogna porsi il problema di come difendiamo il parlamentarismo come unica via di uscita democratica dalla morsa della crisi, abbiamo vissuto anni di lotta contro il Parlamento ma oggi un terzo del parlamento è costituito da una forza politica che ha compiuto anche il tentativo di bloccarne l’attività solo qualche settimana fa, ora noi sappiamo condannare loro ed è giusto farlo, ma nel Paese abbiamo gli strumenti e le idee per difendere il Parlamento in quanto unica possibilità per i cittadini di partecipare alla vita dello Stato?
Ecco il ritorno all’idea del PD concepito come il partito della coesione nazionale non solo tra Nord e Sud, ma tra cittadini che ancora credono nei percorsi democratici e chi ne è già fuori. Vota solo il 50% degli Italiani. Tanto più servirà che il PD si faccia carico nel Mezzogiorno di ricoprire questo ruolo dove i numeri sono uguali a quelli successivi ad una guerra civile. L’economia del Sud Italia rischia conseguenze irreversibili se non si avvia subito un’azione anticiclica volta ad un forte sostentamento dell’economia attraverso investimenti pubblici e senza un piano industriale che riporti il Sud al centro del problema Italiano non come zavorra ma come soluzione dello stesso. Certo c’è da dire che siamo in ritardo, solo il 38% dei fondi strutturali europei è stato utilizzato in Italia, e il ritardo riguarda più le regioni del Mezzogiorno alla fine della programmazione 2007/2013. C’è la proroga di due anni certo, ma con la certezza che sarà impossibile utilizzarli tutti e tenendo presente che è in fase di partenza la programmazione 2014/2020. Questo sottende un fatto molto importante e ritorno al nostro ruolo, occorre formare classi dirigenti con una nuova cultura di governo della cosa pubblica, il governo nella crisi richiede un grosso patrimonio di idee, di creatività, soprattutto nelle aree in difficoltà e nei comuni che hanno subito in questi anni pesanti tagli nei trasferimenti.
Se questo Paese potrà cambiare il suo volto molto dipenderà da come si governeranno le aree urbane dove risiede il 70% della popolazione italiana. Non aiuta in questo senso la mezza riforma delle province, perché non definisce ad oggi quelle che sono le competenze dei Comuni rispetto a quelle che troneranno alle regioni, fermo restando che anche in quest’ultimo caso bisognerà aspettare la riforma del titolo V. Fatti non da poco che vengono forse proclamati con molta facilità rispetto alla complessità delle riforme stesse ma che speriamo comunque possano essere traguardate facendo si che l’Italia possa uscirne in avanti e non indietro. Il Governo delle città in ogni caso sarà il banco di prova per i gruppi dirigenti che non potranno essere passivi rispetto alle riforme dall’alto, ma dovranno sempre più, a mio avviso, fare rete per organizzare servizi fondamentali per i cittadini.
Noi volgiamo al termine di un’esperienza di governo della città, da qui ad un anno si andrà a nuove elezioni, con tutta probabilità questo sarà l’ultimo congresso del PD prima di quell’appuntamento e questo impone anche una riflessione seria che guardi alla realtà. Bisogna avere il coraggio di parlare il linguaggio della verità anche quando è difficile farlo. Questi sono stati anni difficili, per la città, per chi si è fatto carico dell’onere di governarla, per il partito. Nonostante le condizioni poco agevoli dei risultati sono stati ottenuti con opere completate che sono state consegnate alla città altre da completare e in questi mesi bisognerà dare una sterzata, la stessa che ha chiesto il Sindaco con il rimpasto di giunta. Questo richiede un coinvolgimento delle forze politiche è una predisposizione da parte di queste ultime dare un contributo in positivo laddove bisogna traguardare dei risultati importanti. Sono state coinvolte figure esterne ai partiti, ma un messaggio che voglio consegnare al Sindaco è che dai momenti difficili si esce aprendosi alla città ma soprattutto si esce con più politica.
Questo richiederà uno sforzo di elaborazione da parte delle formazioni politiche che sono in maggioranza ma anche una particolare capacità di ascolto da parte di chi è in giunta a partire dal Sindaco che la presiede. Penso ad esempio al bilancio, che ha segnato lo scorso anno il punto più basso di questa esperienza, contradicendo l’assunto per cui avremmo dovuto governare senza fare leva sulle tasche dei cittadini. Penso che debba essere grande lo sforzo per recuperare quest’anno, non si può chiedere ai soliti noti di pagare il prezzo della crisi.
Non sono alla ricerca di un capo espiatorio non appartiene alla mia cultura, e so che anche noi abbiamo la nostra dose di responsabilità. A voler racchiudere in un immagine i limiti di questa esperienza direi che c’è stata una battaglia per chi doveva tenere in mano il timone e quindi assumere la guida politica della città. Sia chiaro la cosa non è sconvolgente e fa parte della democrazia, il punto per me è un altro: abbiamo perso sullo sfondo quella che era una visione della città e mi riferisco a tutti, al partito di maggioranza relativa e agli alleati, tutti, anche coloro che hanno fatto parte integrante della maggioranza prima che il Sindaco rifacesse la giunta. Il prezzo lo stiamo già pagando, è oggettivo il fatto che abbiamo perso il rapporto con la città, in parte lo ha perso l’Amministrazione e poi ci sono le nostre colpe. Una su tutte: non abbiamo costruito iniziativa politica in maniera autonoma che potesse allo stesso tempo fare da pungolo agli amministratori e sfondare il muro di indifferenza che ci divide dalla città.
Credo che abbiamo bisogno di una analisi critica da questo punto di vista sapendo in partenza che non c’è chi ha vinto e chi a perso, ma che c’è da recuperare un pezzo di credibilità nei confronti di una città che non ha punti di riferimento. Poi ci sono le nostre battaglie e le nostre conquiste, rispetto a queste è bene precisare che il portato di idee che la sinistra aveva elaborato e che ha realizzato si è esaurito. C’è bisogno di una nuova elaborazione politica, il grande cambiamento che questa città ha attraversato non è una cosa che esiste in natura e il tempo dei lupi può sempre ritornare. Credo che la stagione del centrosinistra mesagnese con il suo grande carico di energie, di idee, di riqualificazione di questa città sostanziale e culturale volga al tramonto. La vicenda del centro storico è quasi emblematica, noi lo abbiamo restituito alla città liberandolo dalla condizione di ghetto che l’illegalità organizzata gli aveva costruito intorno. Quella operazione simbolica ha avviato una nuova stagione della cultura mesagnese, intesa nel senso di cultura della legalità e nel senso più diffuso del termine.
Fu questa l’operazione più importante del centrosinistra, stringere un patto con la città all’insegna della liberazione della città dal fenomeno mafioso, del buon governo, dello sviluppo, di una grande operazione dei servizi alle fasce più deboli e di riqualificazione urbana della città. Nasceva una delle zone industriali, con importanti insediamenti, più grandi e importanti del territorio, una nuova classe imprenditoriale riuscì a farsi spazio in questo contesto . Oggi la nostra è una città disorientata, da questa fase bisogna uscirne bene ed evitare enormi passi indietro, io credo che sia questa la grande missione di un nuovo gruppo dirigente, inventare una nuova grande stagione di sviluppo della nostra comunità. Anche qui sarà importante il partito democratico, anche qui con una funzione di ricostruzione del tessuto sociale, nel senso che c’è bisogno che il nostro partito si organizzi e riesca ad organizzare una forza sociale che da sola non si organizzerà.
Dobbiamo creare un nuovo blocco storico attingendo dalle energie nuove, dal mondo del sapere, della cultura, da tutte quelle energie che ci sono in quel 29% di disoccupati, che magari hanno un titolo di studio si sono formati nelle nostre scuole nelle nostre università e rappresentano un mondo di creatività che solo l’idea di sprecarlo è da far accapponare la pelle. Dobbiamo recuperare chi un titolo di studio non c’è l’ha e oggi è dimenticato da un mondo che corre a velocità insostenibile per chi non ha strumenti. Io voglio che il partito democratico della nostra città torni ad essere uno strumento nelle mani di chi strumenti non ne ha, il luogo dove raccogliamo l’intelligenza dei senza potere e la organizziamo. Su questa base bisognerà costruire un nuovo tesseramento, che sia il recupero di un’adesione ideale, valoriale, morale e non uno sterile strumento per contarsi e magari vincere sulle macerie di un partito. Il PD non può essere solo il luogo di filiere organizzate da Roma in giù che si incontrano e decidono chi deve fare il Sindaco, l’Assessore, il Consigliere Regionale e via dicendo.
In un’intervista rilasciata ieri all’Unità in occasione dei suoi novant’anni Macaluso ebbe a dire: “la politica non ha senso se perde contatto con la drammaticità del reale”. Io credo che sia questa la missione di un gruppo dirigente quella cioè di portare le idee e anche gli ultimi nella vita dello stato per accompagnare grandi processi di cambiamento. E’ opportuno che se ne facciano carico i più giovani e lo facciano con autonomia, che comporta anche una grande capacità di ascolto. Bisogna farlo senza nascondersi dietro alibi, chi è venuto prima di noi ha senz’altro sbagliato qualcosa, ma ha fatto tante cose buone. Qualche sera fa scrivevo che assumerò questo impegno con senso di responsabilità ma soprattutto con orgoglio e umiltà allo stesso tempo. Orgoglio che viene dalla nostra grande tradizione in questa città e umiltà per il fatto che anche noi abbiamo sbagliato e riconoscerlo è un punto di forza non di debolezza.
Concludo con la citazione del breve tratto con il quale Alfredo Reichlin apre l’epilogo del suo ultimo libro “Il midollo del leone” spero possa dare il senso di ciò di cui abbiamo bisogno, vale a dire di una conoscenza della storia e di ciò che siamo stati come una condizione necessaria per programmare il futuro: “Troia non c’è più. Enea l’ha abbandonata senza mai guardarsi indietro ma porta il vecchio padre Anchise sulle spalle. Affronta un lungo viaggio attraverso mille pericoli e luoghi sconosciuti. Ma la sua meta è chiara. Deve sbarcare alla foce del Tevere per fondare una nuova città : Roma. E Roma non sarà una colonia di Troia ma l’inizio di una civiltà nuova. Però egli non abbandona i sacri penati (ciò che da un senso alla sua vita) né il vecchio padre. Senza di loro Enea non sarebbe niente.