(di Giancarlo Sacrestano da il7magazine) Sono tanti i gruppi di formazione alla recitazione, che operano nella provincia brindisina e tutte assolvono al compito di rendere testimonianza all’arte delle arti, la finzione scenica, per capire e magari vivere meglio la realtà.
Calpestare il tavolato, dare vita da un palco, al racconto di esperienze di vita, è gesto di apertura verso l’altro da noi, che ci vive affianco, che nella vita reale diventa nostro contrario, nostro conflitto.
Nonostante siamo abituati all’uso della rappresentazione scenica, nelle scuole, che ne fanno legittimo uso, è meno usuale che la ricerca di crescita teatrale, diventi impegno, palestra, scuola, che occupa i pomeriggi, che costruisce e forma il carattere ed affina le capacità di leggere la vita, ben oltre il variegato, quanto solitario cazzeggio sui social network.
La maggior parte delle scuole di formazione teatrale, dialoga con le istituzioni, nel perenne squilibrio tra i benefici ed i costi di opere che consumano la loro azione, lungo tutta la vita dei protagonisti e, pareggiare i conti, tenere in equilibrio i bilanci, non sempre è facile, non sempre riesce.
L’impresa non ne vale quasi mai la candela, e se la memoria corre alla vita bohemienne e sregolata degli attori, dall’altra non smette di attrarre e di fascinare il bisogno di provare a guardare la vita, con gli occhi di qualcun altro, immedesimarsi, magari, in Romeo o Giulietta, provare sulla propria pelle, con i propri sentimenti la tensione emotiva e violenta della disputa tra famiglie e simulare pure la tragica crudeltà della morte.
Chi si prova a vivere esperienze di questo livello, nel tempo in cui la realtà offre mille e mille sollecitazioni provenienti dalla cronaca e che sono di gran lunga più radicali e violente, non è un romantico o un debole che si chiude nel guscio della finzione per evitare di confrontarsi con la cronaca. No. Chi si misura con la recitazione dei classici testi teatrali, si prepara a vivere la consapevolezza e la maturità per capirla, la vita quotidiana, e divenire agente di armonizzazione del gruppo sociale di cui fa parte
Tra i rispettabilissimi e significativi cartelloni della stagione teatrale appena trascorsa, ho seguito anche, una piccola scuola di formazione teatrale di Mesagne, che quest’anno ha messo in scena tre rappresentazioni, tratte da tre “must” della commedia dell’arte. “Romeo e Giulietta”, in un’organica rivisitazione, con riadattamento narrativo, per rendere fluido il rapporto tra la giovanissima età degli attori ed il proprio bagaglio culturale, tutti minorenni, con pochi innesti di, comunque giovani.
Visto con gli occhi dei “millenials”, il tormentoso percorso dell’amore tra i giovani rappresentanti di due famiglie contendenti, si svapora al cospetto delle mattanze violente e inarrestabili che ci offre la cronaca quotidiana, inarrestabile deriva alla più folle corsa all’omicidio di ogni forma di civile convivenza. Eppure, nei toni e nei gesti e nei tempi teatrali, letti e riletti, provati e riprovati, questi attori in erba, si sono caparbiamente misurati con i loro limiti e le tante contaminazioni, che arrivavano nella loro saletta prove o sul palco, durante la recitazione.
“Gianburrasca”, l’altro riadattamento, step voluto e ricercato, nella logica del teatro di formazione, dove l’adolescenza e il rigore educativo, salgono sul ring della vita ed il confronto diventa conflitto generazionale e l’indisciplina prende forma di rivolta: “Viva la pappa col pomodoro”, è stata ulteriore tappa di crescita e di condivisione. Pare poco, pare lento, il percorso formativo, ma segna dentro, con inchiostro indelebile, marca a vita e con la calligrafia dallo stile elegante, modella il cittadino in erba, piano piano ne fa emergere il senso ed il peso culturale del suo vissuto.Nel percorso che si è chiuso qualche giorno fa, ho assistito ad una rielaborazione intelligente, su un canovaccio di straordinaria efficacia e bellezza, della storia della commedia dell’arte. L’ “Arlecchino Servo di due padroni” di Carlo Goldoni, è diventato, per l’occasione, un moderno pamphlet in rigoroso stile anni ’80 (del secolo appena trascorso). La garbata ricerca storica, sorta di segno di gratitudine verso la giovinezza dei loro genitori, ha visto i giovani figli di Orfeo, vestire i panni adolescenziali di questi ultimi. “Pazzi per Amore” rilegge, quella subcultura da telenovelas per rendere sintesi di una parabola che proprio in questo tempo sta mostrando il suo punto di caduta.Erano gli anni in cui Celentano cantava l’astruso concetto “Prisencolinensinainciusol” vuoi per cavalcare, vuoi per denunciare l’assenza di un pensiero razionale ed emotivamente affidabile, di un tempo, che si poggiava sulla “Insostenibile leggerezza dell’essere” perché tutto doveva diventare avere, possesso, successo, denaro. Erano gli anni in cui ci siamo bevuto e mangiato il nostro futuro!
In “Pazzi d’Amore”, questo il titolo rielaborato, il servitore di due padroni, deve scegliere tra la ricerca spasmodica dell’avere e continuare ad abbuffarsi di ogni opportunità per sedare la fame o abbandonarsi alla ricerca dell’essere che si nutre di poco pane e tanta fantasia, ritrovando il proprio nesso con l’intelligenza emotiva. Se anche fosse, ai giovanissimi di oggi, non è neppure concesso di servire, perché li abbiamo resi schiavi a zero euro, di una società che si alimenta di spreed e P.I.L. e tanto, ma proprio tanto debito finanziario.
Visti gli ultimissimi accadimenti epocali, non ultimo i rischio di dissesto climatico da qui a pochi anni, devo essere sincero, la scena finale della commedia, che vuole far esplodere oltre il palco, lza pazzia d’amore, traducendolo in un turbine di balli e abbracci agli spettatori, che si sono visti gli attori regalarsi alla platea, nel gesto catartico della fusione ben oltre la finzione, mi ha commosso e da vecchio genitore coglione, finanche nonno per l’enorme divario d’età con molti di loro, mi ha ridato il sogno, sempre cullato, mai realizzato, di vedere i giovani salire in cattedra e dettare l’agenda delle priorità. Primum Amare!Dal palco e solo in filigrana la lettura gentile e a tratti persino garbata, della generazione che negli anni ’80 ha edificato il macello e il dissesto dei valori umani. La sensibilità, la gentilezza e l’ironia di questa nuovissima generazione emergente, lascia ben sperare, sarà per necessità, sarà per scelta, sarà un po’ per celia, un po’ per non morire, come avrebbe detto Pirandello, ma nel caos quotidiano, c’è il nuovo germe di società nuova e gentile, che dell’intelligenza emotiva, riesce a coniugare energia, significati e potenzialità, attraverso l’esperienza di formazione teatrale.
La loro è battaglia senza quartiere, è guerra che Cervantes avrebbe affidato al suo fido Don Chishiotte, ma che invece dobbiamo affrontare noi adulti-adulteri, al fianco, di giovanissimi, tutti da incoraggiare, tutti da benedire, perché meglio e più rapidamente potrebbero scegliere di consumare gli ultimi spasimi della società dei consumi, intruppandosi nel già foltissimo gruppo dei diseredati che tentano il bingo dei reality.
Come si conviene per ogni buona compagnia, faccio i nomi ed i cognomi dei protagonisti di questa scuola, in rigoroso ordine alfabetico: Lorenzo Amoruso, Giulia Bianco, Davide Calò, Maria Cristina Camarda, Giada De Leo, Silvia Devinciente, Marco Filomeno, Gianbattista Mitrugno, Emmanuele Perrucci, Federica Perrucci, Selene Solimeo. Maria Carmela Primiceri, li ha diretti tutti.
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