Nelle sale nobili del Castello di Mesagne lo sguardo vivo del genio osserva da ogni intarsio di finestre. Nella gran sala, sembra far capolino fra gli stemmi araldici e il tetto a capriate, complice il sistema di copertura delle travi lignee che rimangono a vista e lasciano spazio all’immaginazione. Pablo Picasso nella città messapica ci entra tutto e ci sta a pennello, sospeso tra le firme inconfondibili della sua “Pi” che prende le distanze dal resto del cognome, nonostante il caldo che già ai primi di giugno allenta i sensi dei visitatori imbottigliati nell’afa di ambienti senza climatizzazione.
C’è la sensualità disarmante e carnale che non lascia spazio alla fantasia neanche quando la metafora grafica sono innocenti fiori. Il desiderio di penetrazione e possesso delle donne amate e godute c’è fino allo sfinimento, molto più di quel che sarebbe bastato per far meritare all’artista il disprezzo dei più nauseabondi regimi totalitari per la sua “arte degenerata”. C’è l’eros sfrenato ma anche lo stile di Guernica, quindi il monocromo giocato esclusivamente sui toni del grigio. Si intravedono i volti deformi, i corpi disfatti e i cavalli in agonia che in alcuni tratti ci restituiscono una delle opere che meglio incarnano il suo impegno morale e civile.
C’è il cubismo e gli esercizi per renderlo, il periodo blu e un Picasso meno edito nelle tinte forti delle commissioni private; ci sono i messaggi di pace e il richiamo all’essenziale – natura e sesso esplicito – che ci rende tutti uguali.
L’universo femminile arriva a profumare di ormoni ogni anfratto degli ambienti mesagnesi che ospitano la mano di un Picasso a ruota libera, coinvolto dalle emozioni e che trasgredisce ogni atto puramente meccanico per restituire metafore di fertilità, speranza e futuro.
La parte più “fresca” degli ambienti ospita le illustrazioni eseguite per un volume del poeta americano Aimè Cèsaire. Qui prevalgono le linee picassiane degli anni ’30 e i martellanti riferimenti alla graffitistica tribale e all’archetipo della fecondazione. Il culmine della mostra è alla testa finale dell’allestimento, il busto di donna, dove l’eros finora trasudato da testa e mani si fa costruzione geometrica in una figura umana ridotta all’essenza.
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