(di Fabiana Agnello da il7 Magazine) I Quartieri degradati a Brindisi fu concepito per la prima festa provinciale dell’Unità che si tenne a Brindisi nel 1972, in piazza Santa Teresa, e vorrei portare questa mostra proprio nella città d’origine»: Pio Tarantini, nato a Torchiarolo e residente a Milano, fotografo di fama internazionale con alle spalle la pubblicazione di alcuni lavori sulla prestigiosa rivista d’arte DU, di Zurigo, ed esposizioni in gallerie private e sedi pubbliche in Italia e all’estero, ha sposato perfettamente la “memoria condivisa” di numerosissime iniziative svolte dall’Associazione Giuseppe Di Vittorio di Mesagne esponendo nel Salone i suoi fotogrammi di una “Brindisi marginale” degli anni Settanta, delle baraccopoli e di Cerano, tratte da un progetto realizzato nel 2013 a Milano ed intitolato “3/Settanta. Tre reportage degli anni Settanta”.
La mostra, che si tiene nei locali di via Castello, sarà chiusa domani sabato 8 settembre, alle ore 18.30, con un incontro pubblico con l’autore. I “Quartieri degradati a Brindisi” e “Cerano”, dopo 40 anni, si sono avvicinati alla loro sede geografica.
Che cosa ha significato per lei? Per me, come dico sempre nei miei incontri che riesco a realizzare nel Salento perché gli amici salentini benevolmente mi ospitano spesso e ci sono diverse occasioni in cui ritorno alla mia terra d’origine presentando mostre, conferenze, incontri, e negli ultimi anni grazie, soprattutto, agli amici del collettivo Polaroads che mi hanno organizzato diversi eventi a Brindisi, per me ovviamente è sempre un emozione doppia nel senso che oltre al piacere di realizzare un evento significativo in sé per il suo valore (se ne ha) fotografico, c’è l’elemento affettivo che è molto importante. Io sono nato qui, in questa terra e quindi in particolare questi due lavori su Brindisi sono stati il mio primo lavoro. Io ero giovanissimo e l’impostazione era assolutamente documentaria. Non sapevo che dopo la fotografia sarebbe diventato il mio mestiere. Quindi davvero assume una grande valenza, infatti adesso l’obiettivo è quello di portare questi lavori che sono stati gentilmente stati ospitati qui a Mesagne nella G. Di Vittorio, nella loro sede effettiva che è Brindisi.
A tal proposito, durante l’inaugurazione della mostra ha accennato al sindaco Riccardo Rossi di valutare un progetto che ha presentato con la Polaroads già durante il commissariamento. Ha ricevuto risposta? Sì, in questi giorni vediamo di realizzare qualche incontro che possa essere l’inizio di un discorso più complesso perché a Brindisi si pensava di portare oltre a questi due lavori anche molti altri relativi al Salento. Quindi si tratta di capire come dal punto di vista tecnico si riesce ad organizzare un evento più significativo. Anche perché questi lavori sono i miei primi lavori degli anni ‘70.
E negli anni ’70 lei è stato anche un attivista politico… Si, in quegli anni, infatti, Quartieri degradati fu concepito proprio per la prima festa provinciale dell’Unità che si tenne a Brindisi sulla piattaforma del porto, sotto piazza Santa Teresa. Quindi questo lavoro nacque proprio col fine di documentare il degrado e presentarlo nel Festival dell’unità.
Guardando le foto viene spontaneo domandarsi se ha ritrovato qualcuno dei bambini fotografati. Una volta, quando furono pubblicate un po’ di immagini dall’edizione pugliese di Repubblica, vidi tra i commenti che c’era qualcuno che scriveva «ah, la tal signora è..»…Ma non ho dato seguito alla cosa perché vivendo a Milano mi è difficile intrattenere i rapporti. Anzi (sorride), un piccolo evento simpatico e significativo, lo scorso anno dopo una mia conferenza che tenni a Palazzo Nervegna, uscendo con gli amici di Polaroads mi trovai per caso, era sera, nell’angolo dove c’è proprio la Via San Pietro degli Schiavoni, che è la foto della signora che sta buttando il secchio di acqua sporca nel tombino e a parte la ristrutturazione del palazzo, tutto il resto era rimasto uguale:stessa pavimentazione della strada, lo stesso tombino, sono sempre quelli. Quindi mi son trovato davanti allo scatto e ho rivissuto quel momento.
Come ha vissuto il passaggio dall’analogico al digitale? No, è un falso problema. Nel senso che è un modo tecnico di uso dello strumento, ma per me non ha comportato alcune cambiamento di linguaggio. Mi son dovuto adeguare all’esigenze tecniche di oggi che, peraltro, considero al contrario di quelli che sono legati all’analogico e li trovo inutilmente nostalgici, con tutto il rispetto per la pellicola. Io credo che il digitale offra grandi occasioni anche di qualità del prodotto. Per esempio, negli ultimi anni ho trovato il piacere di stampare in digitale perché nel 90% dei casi ho fatto dei passi in avanti con il colore perché lo posso gestire io, curare io, e quindi la qualità di una mia stampa a colori fatta da me con l’aiuto di mio figlio che è il vero autore della post produzione è sicuramente migliore anche dell’affidarsi ad un laboratorio per quanto di ottima professionalità possa essere, non avrà mai la cura di una stampa personale. L’ho vissuta molto bene. La camera oscura va sempre benissimo per il bianco e nero, però.
Le foto che ritraggono i bambini richiamano molto la poetica di Cartier-Bresson. Quanto la hanno influenzata? Quando ho fatto quelle foto i miei interessi erano solo letterari e cinematografici. La fotografica era soltanto qualcosa a latere, semplicemente perché io da autodidatta avevo imparato a fotografare e quindi per me la fotografia aveva senso come strumento di documentazione. Ovviamente compravo, per potermi documentare, alcune riviste e non avevo alcuna cultura fotografica di linguaggio e certamente Cartier-Bresson era il più in voga: la poetica bressoniana è sostanzialmente la politica del momento decisivo. E in questo lavoro di Brindisi c’è una foto particolare che ha avuto molto fortuna e che io ho usato spesso anche per locandine: una molto rappresentativa che è quella dei bambini sul muretto. Appunto la tipica fotografia bressoniana del momento decisivo. Certamente Cartier-Bresson era uno dei pochi fotografi che conoscevo e direttamente o indirettamente mi ha influenzato. Poi dopo i miei interessi sono anche cambiati da un punto di vista visivo. Ho cominciato a documentarmi ad avere una maggiore consapevolezza critica e, soprattutto, culturale e quindi poi il discorso si è complicato e mi sono aggiornato a quelli che sono i linguaggi contemporanei.
Com’è cambiato il rapporto con la sua città da quando non ci vive più? Torchiarolo è un paesino di 5000 abitanti e ci sono legato per motivi familiari e delle tante amicizie coltivate fin da quando ero bambino e adolescente, e, soprattutto, perché in quegli anni ho fatto politica. Ho un rapporto di radici molto forte che resta tuttora con l’amarezza di un paese che forse più degli altri sta vivendo questa grande crisi economico sociale e quindi anche ideologica e ideale. Ed, in particolare Torchiarolo, lo trovo un paese che da un punto di vista apparente ha fatto passi da gigante ed è arrivato anche tanto benessere grazie ad un lavoro più diffuso, ma è arrivato un certo tipo di benessere non legale. A Torchiarolo esiste una vasta area di illegalità legata allo spaccio della droga e questo è un aspetto assolutamente negativo e c’è da aggiungere anche che la stragrande maggioranza dei giovani che studiano e si laureano e cerano un percorso importante vanno via e tornano solo per le vacanze. Io ci vengo volentieri però con quell’amarezza di questa trasformazione, di questo sviluppo mancato, c’è benessere dovuto a tante cause ma non c’è sviluppo.
Da cittadino, come ha inciso, secondo lei, la politica sul territorio e sull’ambiente circostante? E, se c’è, quale strada dovremmo imboccare per uno sviluppo che sia compatibile con le risorse ambientali? La centrale a Carbone che è stata concepita 35/ 40 anni fa, sicuramente aveva un senso che avrebbe dovuto poi cambiare modalità. È ovvio che si è d’accordo sulla decarbonizzazione della centrale. Il territorio di Torchiarolo che è il primo paese a sud della centrale e quindi è sotto vento è il primo territorio più penalizzato dall’inquinamento. La centrale andava trasformata anni fa,su questo non c’è dubbio. Si sta cominciando a parlare finalmente di dismissione, una dismissione che sarà lentissima ma oramai il danno è stato fatto. Quindi questi sono i cambiamenti del territorio. Se oggi non esistono più quelle baraccopoli fotografate da me nel ‘75 e, quella, era sicuramente una situazione di degrado però un degrado che nasceva da esigenze elementari della gente, cioè il diritto di poter vivere qualche mese al mare non potendo avere la possibilità di costruire una casa in muratura con tutti i limiti di igiene. Oggi una baraccopoli non avrebbe più senso; però se al posto della baraccopoli è sorta una centrale altamente inquinante poniamoci qualche domanda. Sempre il solito discorso dei costi che ha il progresso. Io, per esempio,sono molto scettico e a volte discuto anche animatamente con i miei amici per la storia del gasdotto quindi questi grandi movimenti che ci sono (No Tap, etc), a me non sembra che il gasdotto possa inquinare più di tanto dopo che il territorio è stato devastato dalla centrale a carbone, dall’Ilva, dalle case costruite sulle coste assolutamente distrutte. Si distrugge un paesaggio con la partecipazione di tutti e si fanno grandi battaglie sul gasdotto che sarebbe costruito rispettando i massimi standard ecologici.
Cosa consiglierebbe ai giovani d’oggi appassionati di fotografia? C’è un grande fermento, devo dire. Dai giovani arrivano moltissimi stimoli. Però ci sono anche dei rischi ( io queste cose le ho seguite un po’ perché appunto occupandomi di fotografia a tutto tondo nel senso che il linguaggio fotografico l’ho insegnato, l’ho scritto). Conosco un po’ quelle che sono le tendenze di questi giovani esordienti e devo dire che un elemento negativo che riscontro è la tendenza a realizzare fotografie che tendano ad essere compiacenti verso un certo mercato. C’è la tendenza a non seguire un percorso lento, faticoso, che porti a risultati stratificati nel tempo. Ma c’è la tendenza, un po’ di tutto il mondo dell’arte, a voler ottenere subito, volgarmente, il successo. E questo può essere un limite perché non si segue un percorso di crescita anche visiva ma si mira subito ad ottenere risultati concreti. Il consiglio che posso dare io è di lavorare sempre con grande serietà, senza fretta, soprattutto pensando ai tempi nuovi. Quindi lavorare su progetti ben organizzati che possono durare non solo mesi ma anche anni per poter costruirsi un percorso che sia di documentazione e nello stesso tempo della capacità di delineare se possibile, se uno ha il talento, anche un percorso di linguaggio personale ed è un percorso lento e difficile.
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Io non ci andrò a questa mostra, e neanche alle altre, perché non ho ancora capito come funzionano le associazioni per cui per entrare si deve avere una tessera, con le mostre pubbliche che cercano quanti più accessi liberi a Mesagne.
Qualcuno lo potrebbe spiegare?