(di Gianmarco Dinapoli) Persino Facebook si preoccupa di suggerire, piuttosto che iniziative culturali o spettacoli, eventi “con cibo e bevande” che si svolgono nelle vicinanze.
Quella per il cibo è divenuta una vera e propria ossessione collettiva, se possibile ulteriormente cronicizzata negli ultimi anni, complici le “infornate” di trasmissioni e competizioni di gastronomia e soprattutto l’esondazione degli chef televisivi, divenuti ospiti-tuttologi in talk-show e dibattiti culturali, personaggi anche lontani dai fornelli.
Un tempo l’uscita serale era altro: cinema, teatro, cazzeggio con gli amici, passeggiata sul lungomare. La fermata per la pizzella da Romanelli o i volantini da Ricchiuto era il rito precedente al rientro a casa, non il principale appuntamento della serata o, come accade spesso, l’unico.
Invece ora pizzerie trattorie ristoranti paninoteche kebabberie sorgono persino al posto dei negozi, lungo i corsi di Brindisi. Per loro sembra non esserci crisi. Qualsiasi giorno della settimana è buono per il rito dello strafocamento collettivo, documentato con inquietanti foto di improbabili manicaretti, pubblicate sui social.
Già, perché l’unità di misura della serata non è rappresentata dalla qualità della compagnia e delle emozioni, ma dalla quantità di cibo ingurgitato. E postato su Facebook.
È vero, la convivialità, una buona tavola e dell’ottimo vino rappresentano dall’antichità un elemento prezioso di socializzazione.
Ma l’abbuffata una volta rappresentava un modo alternativo e non frequente di trascorrere una serata.
Invece ora è diventato un rito ossessivo che ha trasformato la nostra vita in una interminabile passeggiata per fare il ruttino.
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