(di Felice Rizzo da il 7Magazine)
Quando le aspettative esagerate danneggiano i ragazzi
Mio figlio è un piccolo campione!”. Quante volte ci capita di doverci trattenere dallo storcere platealmente il naso davanti ad una affermazione del genere? Eppure sono situazioni che, sempre più spesso, si ripetono fra i genitori che seguono in maniera fin
troppo passionale l’andamento sportivo dei figli, non accorgendosi di influenzare negativamente il benessere sportivo del bambino o del ragazzo. E’ questo, infatti, un atteggiamento estremamente pericoloso perché tende a proiettare il giovane in età evolutiva verso delle aspettative che non sono le proprie, ma spesso quelle del genitore che vuole vedere realizzati dal figlio quei successi sportivi che lui non è riuscito a raccogliere nel suo vissuto. Il bambino di 8-10 anni, invece, sostanzialmente vuole svagarsi, partecipare autonomamente al gioco imparando a rispettare le regole, i compagni, l’istruttore, gli arbitri: creare in lui eccessive pressioni può trascinarlo in tensioni, ansie da prestazione, convinzione di non praticare sport per il suo divertimento (ma per il protagonismo del genitore), che portano a quell’abbandono precoce dello sport, purtroppo sempre più diffuso un po’ in tutte le discipline sportive di squadra. Sarà importante, in queste situazioni, l’opportuno intervento della società sportiva, per far comprendere al genitore un po’ troppo pretenzioso quali siano le reali attenzioni che deve rivolgere al figlio nel suo processo di crescita sportiva: non certo di vedere il suo addestramento e le sue gare solo nell’ottica di una
affermazione personale, né quella di creare una pericolosa interferenza al lavoro dell’istruttore con delle noiose ingerenze sul piano tecnico. Personalmente ritengo ci siano altri fattori per cui i nostri ragazzi non vivono serenamente la loro partecipazione allo sport: uno fra questi è la specializzazione precoce. Non sono io, ma la maggior parte della letteratura scientifica sullo sport in età evolutiva, a sostenere che i bambini dai 6 agli 11 anni dovrebbero praticare molti sport e viverli come gioco, come svago; invece le pressioni dei genitori, unite a certe vocazioni di sedicenti istruttori giovanili, tendono a creare da subito eccessiva tecnicizzazione, specializzazione avanzata e, di conseguenza, premature forme di selezione, senza rispettare le naturali tappe dell’apprendimento. Bisogna far comprendere ai genitori che non è grave che i propri figli, in età scolare, cambino annualmente disciplina sportiva e, soprattutto, che non è un disonore se non ripercorrono le strade sportive dei genitori: una soluzione che personalmente non ho mancato di adottare con i miei figli, i quali hanno voluto saggiare varie esperienze prima di giungere alla scelta definitiva (che, guarda caso, non sono stati né l’amato basket del padre, né l’atletica leggera praticata a lungo dalla madre).
Forse qualche genitore ora respingerà sdegnosamente un’ultima mia convinzione personale sui fattori che favoriscono l’ abbandono precoce o, quanto meno, una partecipazione senza il dovuto entusiasmo allo sport: parlo dell’atteggiamento iperprotettivo che molti genitori riservano al giovane figlio-atleta. Quante volte siamo incappati in genitori che non si limitano ad accompagnare i figli in palestra, ma preparano loro lo zainetto, che assistono per intero all’allenamento pur di poter porgere la bottiglietta d’acqua o detergere il sudore, che provvedono a sostituire la canotta sudata o ad asciugare i capelli o ad avvolgere la sciarpa intorno al collo prima di uscire dall’impianto: tutte iniziative che un ragazzo in età scolare può ampiamente (anzi, deve) svolgere da solo, acquisendo quell’autonomia e quella responsabilità che sono doverosi per chi intraprende una qualsiasi attività. Si tratta, a mio modo di vedere, di una eccessiva “assistenza” che può generare nel ragazzino la convinzione di aver bisogno costantemente di questi aiuti per svolgere questi compiti o, peggio, di poterli pretendere.
Non un buon viatico, insomma, per il percorso della vita.
Lasciamo allora che l’unica, seria, richiesta del genitore al figlio sia di divertirsi e trarre gratificazione dall’attività svolta. Forse non riuscirà ad esclamare con orgoglio “Mio figlio è un piccolo campione!”, ma gli avrà lasciato la possibilità di acquisire dall’esperienza sportiva quelle abilità che gli potranno servire in tanti momenti della crescita.
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